INSIEME. Abitare la Terra con gli altri animali – 2
“IL CRIMINE CONTRO GLI ANIMALI”. Intervista a Ermanno Giudici
C’è l’asino stremato sotto il sole greco dopo una giornata di inaudito sfruttamento, c’è il canarino in gabbia con ali rese inutili, chissà, forse per l’atavica invidia umana per il volo. C’è il furetto al guinzaglio, il leone impazzito nel recinto, l’oca inchiodata. C’è il rinoceronte amputato del corno, il gatto senza più artigli strappatende di casa, e sì, c’è anche Bobi con le scarpine tipo Superga, in questo minuscolo elenco di quel che – per rimanere al titolo, e al senso, di questa rubrica – rientra nel nostro stare “insieme” a loro. Si tratta di uno stare insieme trattando male, questa volta. Dove il male è, in questi esempi, talvolta un male lecito – ebbene sì, perché non fuorilegge – e invece in altri casi delinquenziale.
C’è anche, per fortuna, chi intende combattere questo male, e cerca di farlo sia in termini di comunicazione e diffusione di conoscenza (la base per capire, dar forma ad una propria riflessione, o perché no ricredersi su pensieri poi riletti in nuova luce) sia in termini di attivismo.
Una delle persone che in Italia meglio rappresenta questo tipo di azione è Ermanno Giudici, che abbiamo l’orgoglio di presentare qui, attraverso un’ampia intervista, a chi ancora non lo conoscesse o volesse approfondire il suo pensiero.
Tra i suoi grandi meriti non è ultima la capacità di fare divulgazione fuori da sterili pietismi e anche da toni conflittuali non solo inadeguati ma anche poco strategici in termini di efficacia: come lui stesso dichiara, tende ad una “educata fermezza dei contenuti”. I suoi scritti sono densi di informazioni dettagliate e, insieme, lucido resoconto e pulito commento sulle molteplici espressioni delle malefatte degli uomini verso gli altri abitanti del pianeta.
Non serve dire che trapela – e Giudici non ha bisogno di mostrarlo con lacrime che resteranno private – un amore sconfinato verso le altre creature. Inevitabili le commozioni; altrettanto importante andare oltre.
Ermanno Giudici è presidente di Enpa Milano, organizzazione nella quale milita dal 1976 e per la quale è stato già Capo Nucleo delle Guardie Zoofile. Autore di numerosi articoli e libri sui diritti degli animali, cura il blog ilpattotradito.it, dedicato alla difesa degli animali e dell’ambiente, e tiene corsi di formazione per gli operatori di polizia sugli stessi temi.
Questa rubrica intende fare il punto sul rapporto, oggi, tra noi e gli altri animali che abitano il Pianeta. Nel primo articolo abbiamo iniziato stabilendo – perché c’è ancora necessità di farlo – che gli animali hanno una coscienza, e anche una morale. Tu come sintetizzeresti il comportamento umano nei confronti degli altri animali in questi anni Venti del terzo millennio?
Sicuramente siamo più vicini alla dichiarazione che non alla concessione di diritti. L’uomo è – diciamo così -un essere problematico: non riesce a riconoscere pienamente i diritti neanche ai suoi simili, quindi diventa molto complesso per lui riconoscere quelli degli altri animali. Ci vuole passione per capire gli esseri viventi diversi da noi. Affermiamo sulla carta che sono esseri senzienti ma poi ce ne dimentichiamo anche perché la nostra empatia segue scale di simpatia: il cane è il cane, il gatto è il gatto, con l’uccellino è già un po’ più complicato, figuriamoci col pesce rosso.
Il fatto che tu dica che ci vuole passione per capire e concedere i diritti agli animali è molto significativo: la passione è qualcosa in più, e questa affermazione esclude un principio di diritto a prescindere. Posso anche non avere la passione per gli asini, ma resta il fatto che è per principio che debbo concedere loro i diritti dovuti.
Tu hai perfettamente ragione in questo senso. Il problema è che il diritto tout court viene riconosciuto come tale ma poi è la passione quella che ti conduce a riconoscere certi valori. Secondo me, però, non ci vuole la passione per gli animali, ci vuole la passione per la vita. Se devo pensare a una cosa che mi fa inorridire è quando vedo una persona che ama gli animali e poi vorrebbe sparare ai migranti, ad esempio. Una contraddizione in termini, molto più diffusa di quanto pensiamo.
Attraverso i tuoi libri, gli articoli e negli interventi in rete ti preoccupi di fare una divulgazione attenta, lontano da inutili fanatismi e invece densa di dati puntuali e informazioni precise sul maltrattamento degli animali, con una “scientificità” che peraltro non oscura, appunto, la passione. Il tuo blog si chiama “Il patto tradito”, inizialmente riferito in particolare a quello tra uomo e cane (com’è appunto nel libro “Il patto tradito fra uomo e cane”, Gruppo Editoriale Castel Negrino 2014) ma estendibile a una visione più generale. Vuoi spiegarci di quale patto si tratta? E di quale tradimento?
Il patto tradito è innanzitutto quello che avevamo stretto con il lupo, un accordo di reciproca attenzione. Il lupo ci garantiva protezione e difesa e noi gli garantivamo cibo e riparo, e questa è la mutualità che abbiamo con il tempo trasferito ai cani. Ma anche con loro questo patto è andato piano piano scemando, abbiamo finito di averne necessità per la difesa, abbiamo scoperto altri sistemi e altri mezzi e il valore del cane è stato legato alla sfera emotiva, magari in riferimento particolare al proprio cane. Lontano dunque da quel patto di attenzione verso gli animali che abbiamo addomesticato, e che sono poi quelli che ci sono più vicini e che ci hanno permesso di arrivare dove siamo.
Le parole sono importanti: un tempo si definiva chi detiene un animale “padrone”, oggi si tende a scegliere “proprietario”, ma siamo ancora in un’accezione negativa, e qualcuno vi legge invece una certa ipocrisia. Nel libro già citato tu suggerisci un termine nuovo: “tutore”. Cosa significa essere tutori di un animale?
Non mi piace il concetto di padrone neanche nei rapporti umani. Pensare di poter essere proprietario di un essere vivente è una cosa che mi irrita. Il tutore rappresenta colui che si deve occupare dei bisogni di un essere vivente che ha necessità di tutela, di difesa, di attenzione. Ci sono tanti termini che sono fuori luogo, anche “animali da compagnia” è fuori luogo. Da compagnia per chi? Il concetto di fondo è che l’animale viene visto come compagnia per l’uomo, come fosse un oggetto ornamentale. Molte volte ci comportiamo davvero da padroni, con il cane in un modo, con il gatto in un altro, forse con lui un po’ meno perché a differenza del cane. che appena ci vede scodinzola, il gatto ci guarda con quell’aria come per dire “Chi credi di essere?”, e prima di darci un cenno ci deve pensare. Parlo di pesci, uccelli e di tutti gli animali da gabbia. Ma quello che, davvero, io non sopporto è l’idea di chi ritenga di essere amico di un animale che tiene condannato in una gabbia. Mi rendo conto che sia un costume in uso, ma credo che non sia tollerabile confinare una creatura e impedirle quello che il suo programma direbbe. Se pensiamo agli uccelli è ancora più terribile: li priviamo di quella cosa meravigliosa che è il volo e che noi vediamo forse solo come un aspetto ludico della loro vita, e invece per loro è terapeutico come per noi una gita all’aria aperta, serve a una vita sana, per la muscolatura, per mantenere i polmoni. Se lo capissimo forse non li terremmo più reclusi.
La cosa incredibile è che la maggior parte delle persone questa domanda non se la fanno neanche: è un po’ come nei rapporti umani dove alla fine sembra che l’amore sia bastante e invece nella realtà non lo è affatto, né nel rapporto tra gli uomini né in quello con gli animali.
Abbiamo perso molto tempo a non educare la gente a un certo tipo di sensibilità, ed è un vero peccato. Se avessimo investito energie su questi temi forse saremmo riusciti a crearci uno zoccolo duro di ambasciatori per questi concetti, che invece spesso sono visti come discorsi che sembrano antipatici e sconvenienti. Perché se tu hai il tuo uccellino e lo ami e io vengo a dirti che secondo me è come un detenuto di Alcatraz tu mi guardi male. Però il ragionamento, pur detto in buone maniere, va fatto. Noi abbiamo bisogno di conoscere le necessità degli animali. Ed è anche una carenza comunicativa da parte di chi si occupa di animali, che a quanto pare non è riuscito a trasferire conoscenza sufficiente.
In un altro libro – “Il grido degli innocenti”, sempre edito da Castel Negrino, nel 2010 e scritto con Nadia Ghibaudo – in introduzione si legge di un “tormento, frammisto a stanchezza, che nasce dal confronto quotidiano con chi è lontano dalle quinte dell’abuso animale”. Puoi spiegarci meglio i termini di questo che appare come un senso di frustrazione? E dieci anni più tardi è cambiato qualcosa?
La frustrazione, da un certo punto di vista, resta. È la consapevolezza di sapere che non arriverai mai a vedere la fine di un percorso, perché l’evoluzione di queste vicende occuperà un tempo che sicuramente va oltre la mia vita, ti stai impegnando in qualcosa sapendo che il successo non sarà a portata di mano, ma con il senso di adempiere ad un dovere morale. Ovviamente questo senso di frustrazione non deve mai farti perdere la passione e la voglia. La vita è fatta di sconfitte, e anche gli insuccessi non devono abbatterti o farti perdere l’obiettivo. Bisogna sapere imparare anche dalle sconfitte, che spesso insegnano molto di più delle vittorie.
Il tuo ultimo libro, pubblicato a luglio da Sperlinkg & Kupfer e scritto con Paola D’Amico, cita nel titolo “Cani, falchi, tigri e trafficanti”, proponendo un ricco (quanto amaro) compendio delle indagini operate da volontari insieme alle forze di Polizia per la salvezza degli animali e la punizione dei criminali. Perché di veri crimini si tratta. Inizio con il chiederti se la legislazione in materia di tutela del benessere animale sia in Italia sufficiente, e applicata.
Né l’uno né l’altro. Non è sufficiente perché noi abbiamo dei riti processuali, soprattutto nella norma penale, molto lunghi e dispersivi. La giustizia arriva tardi, non abbiamo delle misure che sarebbero importantissime come l’interdizione alla detenzione di animali per le persone condannate o sottoposte a procedimento penale, non abbiamo misure preventive. Credo sempre che il carcere per determinati reati non sia la scelta più intelligente, a meno che non si tratti di casi di crudeltà e violenza, che vanno sanzionate e punite al di là di chi sia il soggetto che la subisce, perché sono loro il vero nemico: crudeltà e violenza. Che sia un uomo o un animale a subirla, chi agisce questo comportamento è un uomo pericoloso, da isolare dalla società, e in quel caso ben venga il carcere e una segregazione perché il pericolo è troppo elevato. Mentre per insensibilità o trascuratezza, sarei molto più favorevole a pene alternative, come l’affidamento ai servizi sociali, una sanzione che abbia una valenza rieducativa ma che rappresenti anche un po’ un tormento per chi la subisce. Peraltro va a finire che la pena detentiva poi non venga nemmeno espiata, a meno che non superi determinati lassi temporali. Penso invece a un obbligo di firma, all’obbligo di dimora, al divieto di detenere animali: una serie di misure che in qualche modo limitino la libertà personale ma senza contemplare il carcere che io credo sia di per sé poco risolutivo. Ci vuole comunque una maggior attenzione verso le misure di prevenzione. Quello che io cerco sempre di spiegare quando mi fanno questo tipo di domande è che quando noi interveniamo il crimine è già stato commesso e se in alcuni casi io riesco ad interromperlo – che so, salvo l’asino dal maltrattamento, da una situazione di vita non buona e riesco a fargliene avere un’altra – sicuramente interrompo il comportamento criminale, dando a questo animale la speranza di una vita migliore. Ma quando parliamo invece di crimini con animali morti? Il sequestro di due tonnellate di zanne d’avorio non riporterà mai in vita gli elefanti. E quindi dobbiamo pensare ad azioni preventive e non pensare che la repressione sia la cura per ogni male. La repressione è già una sconfitta di per sé.
Che peso ha il crimine contro gli animali dal punto di vista economico?
Altissimo. Perché è un crimine molte volte ad alta redditività e a basso pericolo. Questo ha spostato l’attenzione verso gli animali, qualcuno si è reso conto che ci si può arricchire con sanzioni molto basse e rischi minimi. Penso ad esempio alla tratta dei cuccioli che vengono dall’Est Europa: pagati molto poco, venduti a molto, sono allevati spesso in condizioni disumane, nel viaggio ne muoiono a carrettate ma i rischi per i trafficanti sono molto bassi. Conviene alcune volte trafficare in cuccioli piuttosto che in altro, droga ad esempio. E ce la si cava con quattro soldi, in caso di controlli, come pagare, per una volta, le tasse.
Non tutte le storie che racconti nel libro sono a lieto fine: in alcuni casi i colpevoli riescono a cavarsela. In che percentuale accade?
Più è complesso il reato, più è necessario dimostrare la sofferenza e più è facile che questo accada perché mentre su una sprangata data a un cane sarà difficile trovare un giudice che assolve, nelle condizioni di vita miserrime di un bradipo in una cantina ci può essere anche il giudice che non riesce a capire la sofferenza. Il concetto è quello che gli inglesi hanno distinto tra welfare e wellbeing e che noi invece continuiamo a chiamare benessere. È un grosso sbaglio perché tra il benessere e il benestare c’è una grande differenza e non basta mangiare, restare vivi e non essere percossi per essere in una condizione di benessere. Torniamo a quelle che sono le definizioni riconosciute dalla scienza, e cioè il concetto di benessere di Donald Broom, che è lo stare in equilibrio con l’ambiente in cui l’animale è inserito, e le cinque libertà di Brambell degli anni ’70: siamo ancora lontano dal trovarle applicate.
Fai spesso riferimento alla necessità di difendere gli animali anche dalla sofferenza psicologica: quanto è ancora diffusa l’idea che l’animale non soffra come l’uomo?
Tantissimo, perché non riusciamo a capirli. Noi riusciamo a percepire la sofferenza di un animale vicino a noi, del quale riusciamo a leggere le espressioni. Riuscire a capire la sofferenza di un pesce rosso in una boccia è molto difficile perché ovviamente è una cosa che il pesce rosso non riesce a trasmetterti. È il tuo ragionamento fatto di speculazioni che ti porta a capire che il pesce rosso è in una situazione di sofferenza. Torniamo all’idea che se l’animale mangia, beve, ha cibo e riparo, sta bene. Ma nella realtà non è così. L’animale ha necessità che sono molto diverse da queste e sono poco riconosciute. Anche su questo c’è molto da lavorare.
Quali attività non definibili criminali (perché lecite) necessiterebbero secondo te di essere meglio disciplinate dalla legge?
Negli ultimi cinquant’anni anni abbiamo aumentato le tutele verso gli animali domestici ma abbiamo ridotto quelle verso gli animali da reddito. Una volta avevamo animali che vivevano in fattorie con produzioni “normali”, dove il momento più traumatico per l’animale probabilmente era la macellazione. Mentre oggi noi facciamo vivere agli animali una vita infelice in strutture che sono diventate delle fabbriche, e accettiamo il fatto che ci siano polli che vivono tutta la vita in un capannone o bovini che non toccano mai un prato, un pascolo. Da questo punto di vista noi legalizziamo un maltrattamento, giustificando comportamenti che se fossero diretti ai cani probabilmente comporterebbero la sollevazione popolare. È come il discorso che faccio sempre usando come strumento di avvicinamento al ragionamento il topo. Noi facciamo al topo – che è un animale intelligentissimo, che è un mammifero, che è un animale con una struttura sociale complessa – del male deliberato verso il quale restiamo indifferenti, delle cattiverie che se venissero messe in atto contro un cane o un gatto la gente inorridirebbe. Eppure noi diamo ai topi dei veleni come i cumarinici che hanno come scopo di far morire l’animale di emorragia, e di provocargli angoscia, perché venendogli a mancare l’aria debba uscire verso l’esterno in modo che muoia senza creare problemi di putrefazione all’interno delle case. Oppure usiamo delle tavolette vischiose dove resterà incollato per ore se non giorni prima di morire. Cose che se dovessimo pensare di fare a un cane o a un gatto farebbero davvero impazzire l’opinione pubblica.
Mi fai venire in mente che purtroppo noi umani oggi abbiamo, causa Covid, dovuto capire meglio cosa sia la mancanza d’aria. Molti hanno vissuto questo sulla propria pelle e ci sono racconti terribili. Anche il topo è un mammifero. Oggi potremmo capire meglio cosa stiamo facendo loro, uccidendoli così.
Eh sì, certo, certo. Ma noi – a proposito di Covid – preferiamo continuare a pensare al complotto del virus creato in laboratorio piuttosto che al fatto che abbiamo impiantato allevamenti di animali domestici in foreste vicino ad animali selvatici creando le condizioni ideali, quasi da manuale per fare sviluppare le pandemie. Informazioni delle quali siamo in possesso da decenni e situazioni alle quali non abbiamo mai cercato di porre rimedio. L’Italia non è mai riuscita a fare un piano pandemie serio nonostante l’allarme lanciato nel corso del 2009 e l’ultimo prodotto è stato un copia e incolla, senza aggiornamenti, di quello di diversi anni prima. Uno scandalo, una leggerezza imperdonabile per la quale qualcuno dovrebbe affrontare un processo prima o poi.
E veniamo ora agli animali ai quali è dedicata questa rivista: gli asini. Purtroppo non mancano maltrattamenti anche gravi e ora che sono animali “da compagnia” vediamo il tradimento del famoso patto. Vuoi parlarci ad esempio del loro uso per il trasporto dei turisti o dell’impiego per la medicina orientale?
Diciamo che gli asini sono – come tutti gli animali da reddito – spesso trascurati e hanno una sofferenza che non viene percepita. Una cosa per esempio che non viene valutata con la giusta attenzione riguardo agli asini, ma anche ai bovini, è il fatto che se non viene effettuato un pareggio dello zoccolo e l’animale non ha una postura corretta questo prova sofferenze indicibili perché si altera il rapporto muscolo-scheletrico, quindi l’animale è costretto a vivere in uno stato di sofferenza continuo, è come se noi fossimo costretti a portare delle scarpe più strette di un paio di numero e magari una alta venti centimetri e una cinque.
Sono felice di sentirti parlare di pareggio!
Eh sì perché parliamo di animali scalzi, che stanno meglio di quelli ferrati. Questo magari lo capiscono in pochi ma ovviamente gli equini sono nati per fare una vita libera. Ci vuole attenzione. Lo stesso vale nell’uso turistico: è ancora troppo alto l’utilizzo di asini impiegati nel trasporto dei vacanzieri, ad esempio nelle isole greche, ma anche in alcune parte del meridione d’Italia, dove sono visti come se fossero mezzi meccanici di trasporto. Vengono lasciati sotto il sole, caricati con pesi eccessivi, non hanno turni di riposo: sono animali che dopo una stagione sono distrutti e a quel punto finiscono macellati.
Si parlava anche dell’impiego nella medicina orientale.
Sì, purtroppo l’impiego per la medicina orientale coinvolge adesso anche gli asini, così come molti altri animali. Ormai si sta decimando la popolazione di asini in Cina e in Africa, e il rischio è che presto si debba parlare di popolazioni quasi estinte. Questi asini vengono poi macellati semplicemente per la loro pelle, tutto il resto è molto poco importante. Il tutto per una medicina senza alcun potere curativo, l’ejiao, ritenuto un vero elisir di salute. Ma spesso la medicina tradizionale si basa su credenze a causa delle quali si rischia di portare alcune specie all’estinzione, come ad esempio avviene per il corno del rinoceronte o le scaglie del pangolino. Che poi altro non sono che cheratina. È come pensare di fare una pozione salvavita usando le nostre unghie. Purtroppo l’ignoranza è la mamma di tutte le battaglie.
Tornando agli asini di Santorini, delle isole greche, c’è anche una straziante beffa, oltre al danno: agghindarli con i pendagli colorati che dovrebbero divertire, piccola cosa certo rispetto alla tortura inferta, ma tristissima.
Se ci pensi, il trucco che spesso viene usato con gli asini, ma anche con gli elefanti, è che questo li rende belli e tu guardi più la bellezza che non la sofferenza, dando più attenzione alla coreografia che non all’essenza e questo spostare l’attenzione, distogliere lo sguardo dal problema, ti desensibilizza. Esistono studi sulla desensibilizzazione che partono dal fatto che le persone si allenano sugli animali per fare poi il salto di specie, perché probabilmente non riusciresti a usare direttamente violenza, se non per agire d’impeto. Così invece ti abitui alla sofferenza, e diventa tutto normale. Alla fine si tratta solo di rendere normale l’orrore. E noi per soldi facciamo cose che sono orribili. Una delle cose più orribili è il trasporto degli animali vivi. Ma non solo in quanto sia una sofferenza indicibile – e molte volte lo è davvero – ma perché è un’inutile sofferenza gratuita. Perché si potrebbero trasportare corpi invece che esseri viventi. Trovo atroce che ci siano pecore che partono dall’Australia per andare in Medio Oriente sulle navi stalla e si facciano giorni e giorni di navigazione in condizioni pazzesche. Lo trovo assolutamente ingiustificabile.
Chi, come la maggior parte dei lettori di Asiniùs, ha scelto di vivere accanto a uno o più asini (e approfittiamo per ripeterlo: l’asino deve stare con i suoi simili, non prendetene uno solo!) si pone tra i vari problemi quello dell’arricchimento ambientale, che nel tuo libro citi come una delle condizioni per favorire il benessere degli animali in cattività. C’è sufficiente informazione presso i detentori di animali, su questo aspetto? E presso il legislatore? Nel libro parli di un procione al quale è stato dato un peluche…
Il concetto – e quindi torniamo sempre al travisamento della realtà – è che se io ti do un peluche vuol dire che ho attenzione ai tuoi bisogni e quindi non sono una persona cattiva. È vero che forse non sei una persona cattiva, però purtroppo questo tipo di ignoranza ti porta a causare sofferenza. La cosa grave è che nel caso del procione sia stato un veterinario, guardando l’animale in gabbia con il peluche, a dire che che tutto andava bene, perché si trattava di arricchimento ambientale. Alcuni concetti sembrano banali e stupidi ma sono assimilati nella nostra cultura: il lupo è cattivo e lo resterà per sempre mentre l’orso è buono per definizione, perché noi siamo cresciuti con gli orsetti Teddy Bear. E invece se conoscessimo le vite dei lupi nei branchi, l’attenzione alla prole, l’attività che svolgono nell’accudimento dei cuccioli anche non loro, resteremmo a bocca aperta.
C’è anche, oggi, una fascia di amanti degli animali che lancia un messaggio usando toni diversi dai tuoi: nel proclamarne la difesa sceglie parole belligeranti, a volte cariche di violenza, come avviene, per fare un solo esempio tra i molti, prima di Pasqua per la difesa dell’agnello. Non trovi che ci sia un’incoerenza?
Il problema vero è che chi usa questi toni non si rende conto che invece di convincere allontana. Alla fine sfoga la sua rabbia, si sente più potente perché può mandare al diavolo qualcuno o dirgli che è una persona di scarso valore ma non si rende conto che per l’animale non risolverà nulla. Le parole ostili non sono mai quelle che convincono, bisogna cercare di convincere facendo dei ragionamenti, esprimendo dei concetti. Io cerco di non indicare mai una strada, ma di fornire spunti di riflessione, il mio spirito è quello. Poi ognuno sceglie cosa farsene, ma sicuramente insultare, aggredire, esibire la violenza a tutti i costi far vedere fotografie di agnelli massacrati, di sangue, io credo che non serva a nulla. L’orrore è la cosa più facile da immaginare; bisogna colpire l’emotività, la parte buona, magari dire che si può evitare di consumare gli agnelli, di uccidere dei cuccioli, di aver più rispetto, che si possono fare scelte differenti. Tutto va fatto secondo me con buona creanza, sennò poi lo spirito si perde. Ma anche bisogna fuggire questa visione disneyana della natura. La natura non è buona, gli animali non sono buoni. Un lupo non è una creatura umanizzabile, un lupo è un lupo. L’essere buoni o cattivi sono qualità morali che si possono riferire solo agli umani. Il lupo fa il lupo e fa quello per cui la selezione e l’evoluzione l’hanno programmato: la predazione di un cinghiale non è sicuramente un atto né d’amore e neanche molto bello da vedere. Questa antropomorfizzazione degli animali causa un sacco di danni: cercando sempre più ad esempio nei cani, a farli assomigliare a dei bambini: occhi grandi, muso schiacciato, aspetto neotenico. Però poi non li facciamo respirare a causa di un muso eccessivamente schiacciato, brachicefalo. Parlando sempre di patto tradito se noi guardiamo la morfologia cranica di un lupo e poi guardiamo un carlino capiamo cosa l’uomo abbia fatto: ha modellato un essere vivente per creare un soggetto adatto a trasmettere all’uomo emozioni piacevoli. Un rilascio di endorfine nell’uomo provocate spesso dal maltrattamento genetico di un cane.
Il tuo sguardo ha incrociato migliaia di occhi di creature innocenti e ferite dalla mano dell’uomo. Vuoi chiudere con il pensiero ad uno di questi incontri?
Sono talmente tanti e talmente diversi che è difficile farsene venire in mente uno in particolare. Alla fine tutti ti toccano e tutti ti lasciano qualcosa. La sofferenza ti lascia sempre un punto di malinconia. Ogni volta che identifico la sofferenza questa mi colpisce, insieme all’indifferenza di chi la causa. E questo mi fa riflettere sul fatto che la nostra evoluzione emotiva sia in parte incompleta. Pensiamo che il valore principale della vita sia l’amore, mentre invece dovrebbe essere il rispetto.
Chiudiamo con una significativa citazione da “Cani, falchi, tigri e trafficanti”: “La consapevolezza, la corretta informazione e la cultura del rispetto sono i valori che hanno consentito e consentiranno all’uomo di costruire una società più giusta e attenta, che riconosca il benessere di tutti gli animali, umani e non umani, come un percorso inarrestabile della nostra collettività. Imparando a riconoscere la sofferenza, dando un valore anche a quanto non lascia segni nel fisico ma mina l’integrità dell’intimità di un essere vivente. Iniziando a imparare che molto peggio della morte sono le condizioni in cui si è obbligati a trascorrere una vita miserabile, piena di aure e di privazioni ingiustificabili”.
Un libro che vede, significativamente, la firma di Cristina Cattaneo in Prefazione. La professoressa Cattaneo è anatomopatologa: lei, la sofferenza, la vede quotidianamente sui corpi degli umani. Però – e qui sta la bellezza di vedere proprio la sua firma in un libro che parla di crimine sugli animali – sa che il nemico comune è la violenza. È un messaggio importante. È quello che ci fa ripetere ancora una volta che occuparsi dei diritti degli animali è difendere, anche, l’umanità.