ASINI PER LEGGERE, ASINI PER GUARDARE OLTRE. Gli ultimi racconti premiati
Terminiamo oggi la rassegna dei racconti premiati con menzione di merito al nostro concorso a settembre, quando eravamo tutti mooooolto più abbronzati. E mooooolto più assemblati. Viva le folle! Viva il branco!
Di seguito, come sempre in ordine alfabetico, quattro letture per voi.
L’ODORE DELLA PELLE di Andrea Battantier (Roma) e Caterina Comparelli (Oleggio/Novara)
Legenda
Nella lettura alternare due voci.
La prima rappresenta il flusso di pensieri della protagonista umana.
La seconda, in corsivo, rappresenta le invocazioni di Millo l’asinello.
L’odore d’asino ti resta addosso ed il ricordo che ho di Millo è indescrivibile.
Dopo la morte del mio compagno non riuscivo più a vedere gli asinelli come prima e, da quella casetta di legno e paglia, quasi mi costrinsero ad andar via:
Gli amici, mia sorella, secondo loro dovevo scendere giù a Torino, per elaborare
il lutto, dicevano.
In quei tempi non avevo la forza di far niente.
Stavo al buio e sola.
Io mi penso solo senza te.
Ricordo, come fosse oggi, il mio salire sul furgoncino di Roberto, il fattore assistente di mio marito, che mi accompagnò in città, promettendomi, lungo il viaggio, che avrebbe badato lui alla cascina e agli asini sul Moncenisio.
Registravo ma non ascoltavo, ero priva di ogni capacità di determinazione.
Io mi chiedo dove sei?
Li sentivo dappertutto e pensai di essere impazzita.
Del resto, come puoi sentire il verso -per tacer l’odore- di un asino a Torino?
Donami odor di pelle antica amata
Ero fuggita.
Uno psichiatra mi aveva preso in mano, avvelenandomi di gocce e pillolette. La
città faceva il resto.
Onoro per sempre colei che mi scelse.
Il medico se ne stava lì, accoffolato sulla sua poltrona nera di rappresentanza, ad
aspettar la lenta fuoriuscita di qualche vago pensiero.
Io canto alla notte il dolore, canto l’amore finché potrò.
Io grido al cielo, io oso. Io tuo sposo.
Il medico teneva a rassicurami:
“Ana, è comprensibile che, al momento, i suoi pensieri siano altrove”.
Ma non erano altrove.
Possa posare ancora il muso mio la sete nelle mani tue.
Issino i canti l’amore fino al cielo.
Noi t’invochiamo in tanti qui nei campi.
Era come un tentennare, una porta chiusa, che si apriva guardinga, per poi
richiudersi subito dopo.
Torna a casa. Torna a casa.
Quello che ricordo della montagna era un fluire diretto di pensieri connessi
all’azione nel quotidiano vivere.
Poso il muso allo steccato e al muro. Torna.
Dove sei?
Che ci faccio qui, senza te?
Ogni poro grida te.
Donaci odor di pelle antica amata.
Quando Millo nacque era una notte di febbraio.
Tina decise che era giunta l’ora.
Sull’erba un velo di neve.
La luna (satellite) era nascosta ma Luna ed Argo se ne stavano a guardare con tenera curiosità quel batuffolo incerto sulle zampette.
Millo diede il suo primo sguardo al mondo. Apparì subito indifeso e, nel contempo impertinente.
Gli onori ti faremo quando torni.
Mordendoti con grazia e levità.
E tu, rospo, lo so che di notte puoi cercarla:
Salta via, scavalca, cercala per noi.
Già lo adoravo.
Invecchieremo insieme, questa fu la mia certezza.
La prima uscita nel bosco di Millo.
Sposo io sono per sempre di te.
Mi sono sopito, ho sognato che tornavi. Torna a casa.
Tina ci accompagnava. Vinicio ed io eravamo emozionati e intimoriti:
Si spaventerà?
Quanto camminerà?
Ce la farà?
Quanti dubbi!
Curioso e invulnerabile esplorava il bosco, ci restituiva fiducia e sicurezza.
Ci conteneva.
Millo era felice, rilassato e il suo stato vitale presto ci contagiò.
Senza te.
Io so che ti aspetto sopito tra i cardi mai sazio.
Noioso io sono senza te.
Senza te, uno strazio e si perde al cielo il mio raglio.
Godemmo degli odori, dei suoni, dei colori del bosco e ne scoprimmo nuovi
segreti.
La primavera era alle porte e, come si sa, “non bussa, lei entra sicura”, come
fece sette anni più tardi quando si portò via Vinicio.
Risuonan nella stalla le tue risa e me che ti posavo il muso sulla spalla.
Mi mancano.
Ho una voglia dirompente della testa di Millo che mi si appoggia sulla spalla.
Sentire che mi spinge per avere un contatto, vero, totale.
E poi Argo, che non ha mai smesso di mangiucchiarmi gli stivali e tirare coi denti i vestiti, per non farmi allontanare da lui.
E Luna, così riservata e selettiva che quando posava il suo musone sul mio petto, abbassando le orecchie per le carezze, mi faceva sentire al posto giusto.
Che fanno ora?
Cosa pensano?
Millo, ti senti tradito?
Non mi vedi, non mi senti.
Io sono qui, in questo studio asettico e vuoto di vita.
Inseguo inesorabili pensieri.
Inesorabili poiché son loro ad inseguire me.
Si affaccia alla memoria un libro, in bella vista nella libreria di casa:
”Che ci faccio qui?”. Bruce Chatwin.
Già, che ci faccio qui?
Io non posso uscire.
Ma io so, posso aspettare te tutta una vita.
Abbracciami ancora, prima che sia finita.
Alle volte le cose accadono in automatico,
Senza pensare si ottiene di più, poiché il pensiero in automatico ha già lavorato da sé e va solo seguito.
Uscii dallo studio.
Iniziai a percorrere una via del centro. Realizzai, semplicemente, che non era questo il mio posto.
Intrapresi un lungo cammino verso la corriera.
Cercai le linee extraurbane. GTT, SADEM, non ricordo, che importa, stavo sopra ormai verso gli amori miei.
L’ultimo tratto di notte inerpicandomi su pel Moncenisio.
Un pick-up mi diede un passaggio.
Poi, ancora a piedi.
Stanca, distrutta, impazzita dentro di felicità.
Giunsi nei paraggi ch’era quasi l’alba. Riconoscevo gli odori.
Rinasceva il mio naso, il corpo tutto.
Udii gli asini chiamarmi, da dietro il colle del Remaisse, festosi.
Finalmente a casa.
Millo saltò il recinto, mi venne incontro.
Lo abbracciai fortissimo.
Poi spossata svenni.
E non ricordo il sogno.
Ma era qualcosa di più saldo che ci univa ora.
LA POESIA DI MILLO ASINO
Io mi penso solo senza te.
Mi chiedo dove sei?
Donami odor di pelle antica amata.
Onoro per sempre colei che mi scelse.
Io canto alla notte il dolore,
canto l’amore finché potrò.
Io grido al cielo,
io oso
io tuo sposo.
Possa posare ancora il muso mio la sete nelle mani tue.
Issino i canti l’amore fino al cielo.
Noi t’invochiamo in tanti qui nei campi.
Torna a casa.
Poso il muso allo steccato e al muro.
Torna.
Dove sei?
Che ci faccio qui, senza te?
Ogni poro grida te.
Donaci odor di pelle antica amata.
Gli onori ti faremo quando torni.
Mordendoti con grazia e levità.
E tu rospo lo so che la notte puoi cercarla:
Salta via, scavalca,
cercala per noi.
Sposo io sono per sempre di te
Io so che ti aspetto sopito tra i cardi mai sazio.
Noioso io sono,
Senza te uno strazio e si perde al cielo il mio raglio.
Risuonan nella stalla le tue risa e me che ti posavo il muso sulla spalla.
Io non posso uscire.
Ma io lo so,
posso aspettare te tutta una vita.
Abbracciami ancora,
prima che sia finita.
SOMARI E MULI di Laura Imbimbo (Roma)
Quando andavo a scuola io, c’erano le classi differenziali. Abolite nel 1977, ed avevo già 20 anni.
In realtà mi ricordo di averle viste solo alle elementari. All’età in cui si va alle scuole medie (l’ho imparato solo molti anni dopo) gli alunni svantaggiati o restavano a casa o venivano inseriti in strutture specifiche. Che poi sarebbe meglio dire che le strutture specifiche venivano “inserite” negli alunni svantaggiati.
Nella mia scuola di bambina, dunque, quest’aula stava al piano terra vicino al refettorio, altro luogo di segregazione riservato a poveri e poveracci.
Noi avvantaggiati sfioravamo questi luoghi salendo le scale e scendendole all’uscita, quando ne avvertivamo la presenza nell’odore brodaceo di ciò che veniva loro somministrato per il pranzo.
Che ci fossero altri bambini in quei luoghi non lo compresi davvero appieno se non un giorno, quando chissà perché la porta dell’aula era restata spalancata.
Vidi almeno più di una trentina di bambini (ed anche qualche ragazzo) che non stavano seduti ai banchi,né chiacchieravano o giocavano fra loro come facevamo noi. Gridavano e correvano senza molto senso e un maestro (gli uomini ancora sceglievano di fare quel mestiere) li redarguiva inutilmente restando sulla porta a parlare con la bidella o non so chi. Diciamo meglio che io sapevo che c’erano, ma non li avevo mai visti.
Chiesi alle compagne chi fossero quegli strani scolari e qualcuna mi rispose che in quella stanza ci stavano i SOMARI! Questa parola, in quel contesto, nella mia testa di bambina solitaria che leggeva molto, si associò immediatamente al lato altrettanto oscuro del Paese dei Balocchi di Pinocchio. A quei bambini trasformati in ciuchi, al povero Lucignolo morente dopo aver tirato litri e litri di acqua su dal pozzo … Forse fu quella volta che cominciai a capire che il mondo gira a modo suo, a caso e senza cuore.
Sono stata una giovane impegnata politicamente e nel sociale. Senza eccessi, senza strafare, ordinatamente, con tanto impegno e un’insofferenza costante ma addomesticata per le ingiustizie. Poiché oltre che Collodi, ho amato Leopardi, ho sempre un po’ saputo che l’umanità in fondo si comporta come la natura stessa. Matrignamente. E che non basta far fuori un re. Ma qui il discorso si allunga e divago, anche se non proprio.
La natura matrigna infatti mi si appalesò alcuni anni dopo quando a quello che resterà il mio unico figlio fu diagnosticato l’Autismo. Allora in verità non lo chiamavano ancora così e soprattutto non lo attribuivano interamente alla natura, ma a qualche mia colpa o (con più clemenza per la mia inettitudine materna) a qualche indefinito evento traumatico della nostra breve vita in comune. Evento psicogeno sconosciuto, dove l’aggettivo mi pareva più un richiamo alla nostra distrazione che una assoluzione.
Non mi soffermerò sull’incompetenza scientifica di trent’anni fa perché qui bisognerebbe che io parli di ciucci, somari o ciuchi.
Ed infatti furono queste le parole che mi vennero alla mente quando, dopo alcuni inutili anni di inutili terapie, gli stessi (inutili) terapisti mi comunicarono che il mio bambino, ormai preadolescente, avrebbe dovuto essere seguito a scuola da insegnanti di sostegno perché da solo non imparava.
E così tornai a quell’aula piena di somari, ai ciuchini del Paese dei Balocchi, a Lucignolo. E per qualche giorno, un po’ mi disperai.
Siccome, come ho cercato di spiegare, neanche io sono proprio un genio, ma sono dotata di una lenta, incerta ma costante tenacia come quella che la vulgata attribuisce al mulo, la nostra vita di equini non è andata così male.
L’asinello ormai è un uomo. Come il suo compagno burattino, si è trasformato. Ma non così radicalmente direi. Ha conservato certa inclinazione asinina, del resto, altrimenti, non ce l’avrebbe fatta a trottare con baldanza in un mondo non fatto per lui.
Il mulo (cioè io) ormai è un po’ vecchiotto ma cerca di tenersi in forma e soprattutto di godere (sempre senza strafare) di quello che la vita e la natura gli offrono.
Un paio di mesi fa, sono capitata in campagna ed ho incontrato tutti insieme un bel po’ di asini. Sono tenuti lì per amore e anche per altri motivi, ma tutto trasmetteva una certa bizzarra allegria. Compresi i ragli. Niente a che vedere con i bambini somari della mia infanzia (che fine avranno fatto?)o con la tragica sorte dei monelli collodiani.
Ho scattato loro alcune foto col telefono e le ho inviate a mio figlio, che al contrario di me ha sempre nutrito trasporto per gli animali. C’era anche un mulo, anche lui immortalato. E il mio adorato somaro ha commentato la sua immagine con un inconsueto entusiasmo (una certa asciuttezza è frequente nell’Autismo). “Bello!” ha scritto.
Ed ho capito che mio figlio mi vuole bene.
LA CAREZZA DI UN UOMO di Raffaele Mantegazza (Milano)
Sono un piccolo asinello e vivo in questa terra brulla e assolata; fatico poco, sono trattato bene, anche perché sono molto giovane e il mio padrone non è uno di quelli che usano le botte. Non è una brutta vita: poco lavoro, cibo, sonno; una esistenza tranquilla anche se forse un po’ monotona. O almeno lo era. Fino all’altro giorno.
Stavo così bene, riposandomi dopo il pasto, c’era nell’aria un bell’odore, era una splendida giornata, il sole era caldo; avevo pensato di farmi una dormita, quando sono arrivati quei due. Erano strani tipi, venivano da me con passo sicuro, mi hanno visto da lontano e mi hanno puntato con decisione. Mi hanno accarezzato e poi hanno detto due parole al mio padrone. Con mio grande stupore mi hanno slegato e mi hanno portato via; strano perché il mio padrone mi è molto affezionato, ma quando gli hanno parlato non ha avuto esitazioni. E poi non mi sembra che gli abbiano dato quelle strane cose che gli umani chiamano soldi e che di solito offrono in cambio di merce o di animali.
Mi hanno condotto per un tratto, e poi siamo arrivati a uno spiazzo con tanta gente, non avevo mai visto così tanti umani riuniti. C’era una atmosfera un po’ simile ai giorni delle loro feste. Tutti erano allegri. I due si sono fatti largo tra la folla e mi hanno portato davanti a uno di loro. Era un umano dal volto comune, non tanto alto, forse non l’avresti riconosciuto tra altri umani (io faccio sempre fatica a distinguerli, mi sembrano tutti uguali. A volte non distinguo nemmeno i maschi dalle femmine), anche se da lui sprigionava una strana forza, era uguale e anche diverso dagli altri, non saprei spiegare. Ma so che mi piaceva.
L’umano mi ha preso il muso tra le mani e mi ha guardato negli occhi; il suo sguardo era tristissimo, c’era tanta malinconia in quelle pupille, ma anche tanta forza. Ho visto quello sguardo solamente negli occhi della vacca del padrone che poche ore dopo sarebbe morta. Era lo sguardo di chi sa di doversene andare presto, di chi va incontro alla morte. Lo sguardo di tutti gli animali quando sanno che è arrivata la fine. Strano, perché apparentemente lui stava bene ed era in salute. L’umano mi ha guardato un po’, poi mi ha accarezzato. Sembrerà stupido dirlo, ma mai nessun umano mi aveva accarezzato così, nemmeno il mio padrone che pure mi ama e mi parla tutte le sere. Era una carezza infinitamente dolce, come se quell’uomo cercasse di trasmettermi il suo dolore, e al tempo stesso di capire il mio; era come se
chiedesse scusa per tutte le violenze che la sua specie ha causato a noi animali. O forse queste sono tutte cose che penso io, e quella era solo una carezza profondamente umana.
L’uomo si è un po’ staccato da me: il suo odore era buono, sapeva di legno, di spezie e di qualcosa d’altro che non ho mai sentito su un umano. Poi mi è salito in groppa. Non ero mai stato montato da nessuno, lui lo sapeva, e cercava di non darmi fastidio: era leggero, o meglio si faceva leggero, e portarlo in groppa non era sgradevole, anzi era bello. La sensazione di avere un umano sopra di me era incredibile, ma sono certo che se a cavalcarmi fosse stato un altro sarebbe stato diverso.
Quando siamo entrati nella grande città tantissimi umani ci facevano strada e stendevano davanti a me i loro mantelli e le foglie delle palme. Le palme sotto le zampe erano gradevoli, i mantelli erano morbidi: sempre meglio che camminare su quelle strade piene di buche soprattutto con una soma sulla schiena. Mentre andavamo avanti, in un chiasso che mi dava fastidio, con tutta la gente che urlava e volendo toccare l’uomo mi urtava da tutte le parti, lui non smetteva mai di accarezzarmi e di rassicurarmi. Guardava davanti a sé, sembrava che non vedesse la folla, sentivo la sua tristezza e la sua determinazione; provavo tanta pena per lui, non sapevo come trasmettergliela ma a un certo punto sono stato sicuro che lo ha capito.
Quando siamo arrivati alla sua destinazione, sempre in mezzo alla folla che aumentava (ma quanto strillano questi umani!) l’uomo è sceso dalla mia schiena. Ha fatto un cenno a due suoi amici che poi mi hanno portato via, a casa mia, dal mio padrone. Ma, prima di lasciarmi andare, l’uomo mi ha salutato. Ha avvicinato la bocca al mio orecchio e mi ha sussurrato alcune parole in quella bellissima lingua liquida che è propria degli umani di qui. Parlava ma era come se cantasse, era come se si esprimesse in una lingua che accomuna tutti gli animali, e anche le piante, le montagne e i fiumi. Le sue parole sono scese direttamente nel mio cuore di asino, come se per un attimo la differenza tra le nostre due specie fosse stata annullata.
Mi è venuta in mente una storia che alcuni del mio popolo raccontano: sembra che tanti anni fa uno dei nostri insieme a un bue abbia assistito alla nascita di un umano particolare. E’ normale che le femmine degli umani partoriscano nelle stalle ma in questo caso si racconta che l’umano era dotato di una strana forza (non fisica, ma nascosta, profonda, simile al nostro istinto) e di uno sguardo insolitamente profondo in uno dei loro cuccioli. Chissà perché me la sono ricordata. Chissà se c’entra qualcosa.
Adesso è sera, sono tornato dal mio padrone, e guardo da lontano la collina su cui sorge la città. Anche oggi è stata una bella giornata, forse un po’ fredda. Si spegne il giorno su Yerushalaim (così si chiama il luogo nel quale ho portato l’uomo) e vedo nel tramonto, in controluce sulla collina, quello strumento di tortura che gli umani impongono ai loro simili, e l’umano nudo che pende da essa. So che è l’uomo dell’altro giorno, non posso sbagliarmi. E so che sta per morire. E che l’altro giorno lo sapeva.
Io capisco poco di cose umane. Non so e non mi interessa perché sia lì. Ma mi dispiace davvero molto per lui. E in questo tramonto non posso fare a meno di ricordare quella tenerissima carezza. Non so bene chi sia quella persona e cosa diranno in futuro di lui. Ma so che quella era la carezza di un uomo. E le parole che mi ha detto prima di lasciarmi, mi dispiace per voi, ma non le saprete mai
SOTTILE LA ZAMPA, DI VELLUTO LE ORECCHIE di Marina Mascher (Bolzano)
A Fabienne e Mathilde, magiche allevatrici di asini
Il primo asino non si scorda mai. A dire il vero non so se ce ne saranno altri, di asini. Nella mia vita, intendo. Ma questo è stato davvero impagabile. Perché un compagno d’avventura è un compagno d’avventura, a prescindere dal numero di gambe di cui la natura l’ha dotato. Per sei settimane siamo stati i Tre moschettieri. Tre moschettieri senza bisogno di un d’Artagnan. No, non è vero. C’era anche d’Artagnan, solo che non era mai lo stesso, cambiavano l’aspetto, la lingua, la lunghezza del tragitto condiviso. Perché sì, la mia storia – la nostra storia – con un asino, con quell’asino, per di più francese, è la storia di un cammino. Su “quel” Cammino. Di un infinità di passi ritmati dalla cadenza regolare dei suoi zoccoli che battevano sul terreno, un rumore ora forte, ora attutito. A contarli tutti, si arriverebbe oltre il milione e mezzo.
Chi siamo noi, ha poca importanza, qui. Basti sapere che siamo due signore non proprio giovanissime ma non per questo noiosamente posate. Quali fossero i motivi che ci avevano spinto fin là, fanno parte di un’altra vicenda. A riempire questa storia basta l’asino, perché quel bell’esemplare di asino dei Pirenei era una vera star. E lo sapeva benissimo.
Ci conoscemmo un lunedì di settembre, un incontro che aveva avuto una lunga gestazione. E infine T. era lì, davanti a noi. Zampa sottile, pelo scuro, ma muso e ventre chiaro, occhio vivace, orecchie foderate di velluto morbido. E ovviamente buona muscolatura, perché a lui avremmo affidato il nostro bagaglio. Un bagaglio che aveva già fatto molta strada, su rotaia, gomma ed ali, per arrivare fin là e che era già stato perso e ritrovato.
Una giornata per conoscerci, imparare i gesti minimi da sapere e poi via, verso il vero punto di partenza, una foto ricordo, la promessa di raccontare come sarebbero andate le cose per questo insolito terzetto, circoscrivere man mano che avanzavamo la data in cui avrebbe cessato di essere un moschettiere per tornare ad essere un asino tra gli asini nella fattoria francese da cui era partito. Qualche pugno di mais nelle saccocce, perché a loro modo anche i quadrupedi sono golosi.
Avremmo scoperto che amava le mele, e questa era una scoperta facile. Ma per le castagne aveva una vera passione, che ci avrebbe costretto a ripetute fermate. Ma questo sarebbe stato poi, dopo giorni e giorni.
La prima giornata fu breve, la mia amica e l’asino ad aspettarmi mentre correvo per gli antichi viottoli ad espletare il rituale che avrebbe fatto di noi tre pellegrini. E già l’attenzione era tutta per lui.
E poi arrivò il giorno, quel giorno. Prima l’ansia perché nella notte T. aveva strappato il moschettone per andare a curiosare tra gli alberi e non riuscivamo a trovalo – a volte gli asini sanno essere dei veri somari – e poi finalmente via, lungo il percorso che saliva costantemente, ora dolce, ora più ripido.
Davanti a noi si sgranava il lungo rosario degli altri pellegrini, le loro sagome si stagliavano sul pendio. Noi a tirare e spingere il nostro asinello che si piantava all’inizio di ogni nuova salita. Non avevamo capito allora che stava solo studiando: il percorso ma anche e soprattutto noi. L’avremmo imparato a nostre spese, perché riuscì ad inquadrarci molto rapidamente, e sapeva senz’ombra di dubbio che tra le due ero io quella che poteva raggirare, anche fisicamente, per andare a fare ciò che più amava: mangiare.
Quella giornata T. rimase a lungo con me, mentre la mia amica ci seguiva o più spesso ci precedeva, mi sentivo orgogliosa di condurre quasi con disinvoltura il nostro compagno di viaggio. Ci sono foto che provano che stavo dal lato sbagliato, ma tant’è, io ero felice già così. Intanto guardavo le nuvole che correvano veloci nel cielo, come immensi, morbidi fiocchi di cotone, i cavalli dalle criniere dorate in alto, lontani, le pecore che sembravano anch’esse fiocchi di cotone, ma piccoli, sparpagliati sulle montagne. Per terra un’ombra che ci precedeva, il sole proiettava sul sentiero la sagoma falciforme del mio cappello e quella lunga delle orecchie del mio insolito compagno. La felicità a volte è così semplice.
Avvicinandoci al culmine il paesaggio si fece pietroso e poi iniziò la discesa. L’asino, che in salita non voleva avanzare, ora sembrava non volersi arrestare mai, e quattro zampe erano inevitabilmente più veloci di due. Così mi ritrovai più volte per terra, perché no, non volevo mollare la longhina, terrorizzata che il ciuchino scegliesse la libertà. Che ne sapevo io che avrebbe fatto solo qualche passo e si sarebbe fermato ad aspettarmi? Magari con quell’aria che avrebbe assunto tante altre volte, come se pensasse: “Che imbranata la mia umana”. Poi i bei boschi, la Francia ormai dietro le spalle, noi tre di nuovo insieme nella Navarra spagnola. Sentieri più dolci ma punteggiati da cancelli troppo stretti per far passare T. con le bisacce addosso. E smonta e rimonta e via. La vedevamo in lontananza, la sagoma carica di storia dell’abbazia, eppure sembrava non avvicinarsi mai.
Il sole stava ormai calando quando infine la strada dell’abbazia fu infine sotto i nostri piedi. Per il nostro compagno di viaggio un campo recintato, per noi letti a castello in camerata. Avremmo scoperto ben presto che esigenze così semplici, come un albero a cui legare il ciuchino per la notte e un fazzoletto d’erba per nutrirlo potevano diventare la più bizzarra delle richieste, ma quella sera no, tutto andò come doveva. Lasciato il nostro asinello a dormire, con quel gesto così aggraziato, che ci sarebbe diventato così familiare nei giorni a venire, appena uno zoccoletto sollevato a raccontare il corpo che si rilassava, ci concedemmo una cena semplice e poi io andai alla messa in abbazia. E alla fine l’invito ad avvicinarci, noi tutti arrivati quel giorno fin là, e nella chiesa calò il buio, poi una luce salì ad avviluppare un’immagine. La vergine di Roncisvalle – e noi là sotto, mille provenienze, mille impulsi ma una sola meta, ad ascoltare in silenzio la secolare benedizione che accompagna quelli che vanno a Compostella.
Altri giorni sarebbero seguiti, ancora un’infinità di passi, carichi di fatica, di voglia di arrivare e timore di non farcela. In una babele di lingue avremmo sentito ripetere da voci meravigliate, allegre, incuriosite, talvolta scandalizzate: asino, burro, âne, Esel, donkey, osioł, e tante foto di T. avrebbero percorso il mondo e il nostro compagno di viaggio sarebbe entrato tra i ricordi speciali dei viaggi altrui.
Ma tra le tante, quelle dieci ore sarebbe rimaste uniche, preziose, in cui due donne e un asino avevano stretto un patto e insieme avrebbero mantenuto una promessa.