GRANDE FESTA CON GLI ASINI. La giornata di premiazione del concorso Asiniùs

Giurati

E così, sabato scorso 14 settembre, finalmente ci siamo potuti guardare negli occhi e stringerci la mano (beh, un po’ di più: grandi abbracci!).

Alla cascina La Bellotta di Oleggio (Novara) si è svolta la cerimonia di premiazione dei vincitori della prima edizione del  Concorso di narrativa Asiniùs, che ha visto la partecipazione di scrittori e amanti del racconto da tutta Italia.

Pubblico Premio a L'incredibile furto... Laura Imbimbo La presidente

Commozione, felicità, momenti profondi e allegria si sono mescolati nelle ore. Bambini, adulti più, adulti meno, ragazzi e ragazzacci e l’abbaiare di un cane, sotto il tavolo della giuria. E poi gli asini per le foto e le carezze, il gallo che se ne frega, le capre curiose. Scalette rispettate, scalette dimenticate.  E pane e formaggio, e “Dai, teniamoci in contatto”, e “Verrò a trovarvi”. Incontri, vita. E un senso di gratitudine in giro tra umani e animali.

Ragazzi con Pablo Bambini e ragazzi Foto 3 Foto 2foto 1Gli amici di LucignoloRagazzi con Pablo

Su tutto, i racconti. Letti magistralmente dall’attrice Ilaria Ferro, accompagnata dalle note dolci di Andrea Caniato alla chitarra. E scritti da persone che sì, ci hanno creduto. Che sanno quale valore si nasconde dietro quei musi. E lo hanno saputo riportare in righe sempre dense di vita. Perché tutti noi sappiamo che l’asino questa vita ce la fa leggere (e quindi raccontare) con occhi sinceri e puliti, proponendosi inconsapevolmente come specchio  per noi.

Andrea Caniato Ilaria Ferro

Non serve certo cavalcarlo, l’asino, perché ci porti lontano.

Grazie a tutti. E mille grazie a voi, orecchielunghe.

Di seguito, ecco il magnifico racconto 1° classificato, “Bravo” di Rachele Totaro.

Presidente e vincitrice

Uno per volta, pubblicheremo tutti gli scritti dei premiati: seguiranno i testi di  2° e 3° classificato, i due premi speciali e  le menzioni di merito in ordine alfabetico di autore.

BRAVO di Rachele Totaro

L’inverno passava appena dalle grate strette della sua prigione. Entrava sotto forma di spifferi cattivi, di rado come luce pallida, incapace di illuminare la stalla. Bravo non ne aveva bisogno per orientarsi. Basta poco per conoscere ogni angolo di un posto ampio pochi metri quadri; se quel posto da un anno è la tua unica casa, la tua gabbia, percorrerlo più e più volte ogni giorno, in un moto circolare, sempre uguale a se stesso, è l’unico modo per non impazzire – o forse lo fai perché sei già impazzito.

Era stato un asino amato e felice, un tempo. Chiudeva gli occhi e tornava lì, con gli altri.

C’era sua madre, la Granda: una gigantessa che non aveva mai visto arrabbiata. Da lei aveva imparato a scovare l’erba più dolce, a ragliare forte, a essere gentile con tutti.

Poco distanti c’erano Nina e Bella, le sorelle maggiori: curiosa la prima, più timida la seconda, sempre attaccate. Bravo si ricordava ancora dei colpi di coda che gli arrivavano quando, da puledro, galoppava tra loro, le zampe che ogni tanto prendevano traiettorie inaspettate e lo facevano svirgolare o capitombolare sull’erba fresca: il mondo si capovolgeva in un prato azzurro e un cielo verde. Era quanto di più imprevedibile ci fosse nella sua vita sempre uguale.

Nel ricordo era steso sul prato, le zampe troppo lunghe per essere anche eleganti, incerto se rimettersi in piedi e tornare a tormentare le sorelle o restare lì, a spiluccare l’erba a portata di labbra fino ad addormentarsi, sazio e felice, quando un’ombra coprì il sole. Sapeva chi era, ma il cuore balzava nel petto, mentre si alzava in tutta fretta davanti a zoccoli enormi e perfetti, ginocchia muscolose, un torace massiccio; solo alla fine, il muso scuro e gli occhi di suo padre.

L’Umano l’aveva chiamato Zeus, perché quella scintilla di divino che ognuno ha in sé era, in lui, una fiamma ardente. Tuonava ragli capaci di zittire chiunque; non si affrettava, era il mondo attorno a lui a rallentare. Una sola volta Bravo lo aveva visto lottare contro un maschio ramingo: si ricordava la terra che tremava e il sangue che usciva dall’orecchia lacerata dell’avversario, tappeto rosso di disonore che lo aveva scortato fuori dalla scena.

Un rumore riportò Bravo nel presente. Ruote che slittavano nel fango, portiere che sbattevano, voci sconosciute. Erano arrivati, questa volta per lui. Pensò al padre, “Dammi il tuo coraggio”. E pensò anche: “Tanto vale rimettermi a sognare”.

Quando Bravo era nato, l’Umano aveva fatto una carezza callosa alla Granda, aveva misurato con le braccia il puledro e aveva annuito. “Questo diventa più

grosso di te, Zeus!”. Si era alzato sulle gambe cigolanti, pensando a quand’era giovane e inarrestabile, agli anni in Spagna che gli avevano dato una moglie che non c’era più e ricordi che non poteva condividere con nessuno. E aveva battezzato Bravo, che in spagnolo vuol dire coraggioso, quel puledro che di coraggioso sembrava avere ben poco.

Le voci erano più vicine, adesso.

L’Umano era vecchio e solo; la seconda condizione gli pesava meno della prima. Aveva lasciato le vacche al cugino, troppo faticoso occuparsene. Ma gli asini… gli asini erano tutto quello che aveva. Passava ore a osservarli, sul suo sgabello rotto. Bastava un fischio e arrivavano tutti: prima Zeus, che con le labbra gli afferrava il panama e glielo depositava sul grembo, rituale sacro per la gioia che portava. Nina e Bella andavano via dopo una carezza. La Granda lo sfiorava.

Ultimo era Bravo. All’inizio per timidezza, poi per abitudine, per rispetto della gerarchia, per godersi di più le attenzioni. Si faceva grattare il collo, arruffare il ciuffo ispido; poggiava la testa sulla spalla del vecchio e restavano così, immobili. In quel mondo di asini, era l’unico uomo che Bravo avesse visto, mese dopo mese, anno dopo anno. Fino al giorno in cui cambiò tutto.

Fuori ora c’erano due ombre che parlavano. “Bravo, coraggio!” sembrava che dicessero.

L’Umano aveva un trattore malmesso, che usava di rado; quel giorno di ottobre l’aveva preso per recuperare della legna. Fece solo in tempo a tirare il freno: quando il cugino arrivò, richiamato da ragli disperati, lo trovò riverso sul sedile, il motore ancora acceso. “Si salverà?” chiese al medico del 118. “È un miracolo che sia ancora vivo”.

“Bravo, Bravo!” sussurrava in ospedale. “Lui no, almeno lui no!”. Aveva preso la mano di un infermiere e gli aveva chiesto di scriverlo, di dare quel foglio al cugino: almeno l’asino giovane doveva sopravvivergli. Piangeva, non perché stesse morendo, ma perché non avrebbe potuto salvarli tutti. Sapeva che gli eredi si stavano già dividendo proprietà e rogne e gli asini, per loro, appartenevano a entrambe le categorie. Era il mondo reale, quello, e la verità era che faceva schifo.

Mentre l’Umano moriva, gli asini erano lì ad aspettarlo. C’erano ancora erba e fieno; l’acqua, invece, era sempre più sporca, Bella già si rifiutava di berla.

Arrivò il camion, con un uomo tarchiato e un adolescente; strinsero la mano al cugino. “Tutti meno quello” disse, indicando Bravo.

Il ragazzo dovette tenerlo a bada mentre caricavano gli altri. Solo Zeus provò a lottare, ma gli uomini avevano fretta, corde e bastoni. Bravo soffiava, raspava, si dimenava per raggiungerli; gli strinsero il naso con un oggetto metallico, non aveva mai provato tanto dolore. Vide sua madre con gli occhi bianchi mentre chiudevano il camion; lui fu spinto in una vecchia stalla, vuota da anni. Non sentiva più il motore, né i ragli strazianti.

Il cugino aveva la coscienza a posto, l’asino del vecchio tocco era vivo. Non era per quella specie di testamento scritto in ospedale, di sicuro non per gentilezza; era la paura di fare un dispetto a un morto e di riceverne per vendetta uno cento volte peggiore. Bravo viveva; come, non era un problema suo. Ogni tanto si ricordava di portargli fieno ammuffito e di rabboccare il catino fetido.

La porta si spalancò davanti a uno sconosciuto. Una donna si fece strada nel letame: reggeva un secchio con carote e mele. Bravo tuffò il muso, troppo affamato per il lusso della diffidenza.

Fuori vide il cugino. “Una rogna in meno”, diceva, mentre si allontanava senza guardarlo. Bravo non seppe che lo cedeva ai suoi salvatori per evitare una denuncia, ignaro e indifferente di fronte alle piccolezze umane e al caso che aveva messo sulla sua strada un viandante incapace di farsi i fatti suoi.

La donna gli sfiorò il collo scheletrico, l’uomo gli infilò la capezza. “Andiamo”.

Bravo scivolava sugli zoccoli curvi e crepati. Gli Umani non forzavano i suoi passi. Mentre imparava di nuovo a camminare, a sentire la terra sotto i piedi, si guardava intorno: lo sgabello buttato a terra, il prato dov’era nato e cresciuto.

Arrivò al camion. Era piccolo, stavolta, e pulito; c’era del fieno profumato, altre carote. Bravo si voltò e i ragazzi lo lasciarono fare.

Vide Bella spuntare da dietro Nina; vide la Granda e il maestoso Zeus. Ragliò per salutarli, sbuffò, poi si lanciò, coraggioso come il suo nome, verso la nuova vita.