WILD ASS DIARY – Quinto giorno

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“Non possiamo permetterci” ha detto Daniele nelle ultime righe che abbiamo letto dal diario indiano. Era la conclusione di una riflessione nuova sull’antropomorfizzazione, dove, con pensiero originale, questo attento esploratore di quanto ci è così ignoto si chiedeva se non fosse altrettanto o ancor più irrispettoso escludere a priori che quei due khur intenti al grooming su uno scenario di sole al tramonto stessero provando gli stessi sentimenti di un ragazzo e una ragazza al primo innamoramento. Osa antropomorfizzare, Daniele, perché, come ogni uomo, non sa. Dunque non può escludere. E va oltre, capovolgendo la prospettiva, chiedendosi se quell’amore non sia “anche” degli uomini. Non “anche” degli animali.

Il suo “Non possiamo permetterci”, però, si fermava così. Non dichiarava l’oggetto. Chiudeva la frase senza nulla aggiungere. E per questo apriva, da quello specchio d’acqua con i pellicani, da quegli asini selvatici in poi, alla maestosità di Madre Natura, e all’opportunità di fermarci davanti all’enorme, alla vastità che non possiamo raggiungere. Non prendiamoci permessi che nessuno ci dà.

Ci riflettiamo anche noi, aiutati dal poter immaginare, grazie a queste pagine intense di un pareggiatore alla ricerca, un orizzonte che si ripeterà forse all’infinito, ogni volta in fondo a un cammino sulla sabbia chiara e calda, verso una vagheggiata conoscenza.

 

25 ottobre 2015 – giorno 5 – 40 gradi

REPERTI

Oggi mi prendo una giornata di relax qui al campo. Utilizzerò comunque il mio tempo per leggere, studiare e ordinare gli appunti. Questa mattina ho scritto un paio di e mail a casa e poi ho riordinato il mio kooba dai pochi vestiti lasciati disordinatamente in giro, le bottiglie di plastica vuote, etc. Quando ho chiesto una scopa a Vikram lui ha insistito per venire lui stesso a spazzare il pavimento, ma io sono stato fermo e deciso nel volerlo fare da solo. Non faccio altro che leggere, scrivere e andare in giro per “wild asses” e ora ho voglia di spazzare la mia stanza, avrei voluto dirgli. Ma lui probabilmente mi avrebbe risposto “what?”. E allora ho preso una strana scopa dalle sue mani con un sorriso e sono andato a fare il mio lavoro. Lui ha ciondolato la testa. Quando il sole sarà sceso un po’ all’orizzonte, poco prima del tramonto, voglio andare in cerca di qualche reperto. Ne ho visti alcuni nel deserto, quando sono andato alla torre bianca. Ossa, principalmente. A parte un intero scheletro intatto di cane, il cui cranio avrei voluto prelevare da portare in regalo a una mia cara amica osteopata, ho notato in terra uno scheletro frammentato di qualche animale erbivoro, con una bella mascella bianca e levigata e tanti bei denti. Vorrei osservarlo più da vicino per capire di che animale si tratti e portarmi via qualcosa nella sacca. Ho solo un dubbio circa la legalità di tutto ciò una volta all’aeroporto.

 

LA MIGRAZIONE DEI KHUR

Ecco cosa è successo l’altro giorno alla torre. Dopo alcune ore di nulla assoluto, a parte l’inseguimento di quattro cani randagi ai danni di tre Blubull (o Nilgai, come si dice in Gujarati) ho scorto finalmente in lontananza, nella parte di deserto che confina con il bush, un gruppo di puntini bianchi, o quantomeno leggermente più chiari del terreno. Con il binocolo ho appurato che si trattava di un branco di khur composto da una trentina di individui. Anche se erano lontani due o tre chilometri, grazie al potente binocolo di Devjibhai ho potuto apprezzare un po’ della loro vita più rilassata, quella in cui si rotolano, giocano o semplicemente non fanno niente. Dopo un’ora di questo tipo di osservazione mi sono nuovamente accucciato nell’ombra. Quando mi sono alzato la volta successiva ho notato che il branco si era notevolmente avvicinato alla mia posizione. Alcuni esemplari avevano distaccato gli altri ed erano arrivati a sei o settecento metri dalla torre. Tutto il branco si stava comunque muovendo molto lentamente verso quello che i locali chiamano “il villaggio” e verso il mio campo. Solo con l’oscurità, avrei poi appreso, i khur, o almeno una parte di essi, vanno ad occupare stabilmente (e per tutta la notte, a detta di Vijay, il figlio minore di Devjibhai) l’area della laguna accanto al campo. Dunque stavo assistendo alla quotidiana  “migrazione” serale dei khur dal deserto alla laguna. Dalla torre potevo chiaramente distinguere che alcuni esemplari prendevano la direzione della laguna, mentre altri si inoltravano all’interno del bush. Altri ancora erano rimasti presso il deserto, dove li avevo visti con il binocolo. Il sole alle mie spalle era ormai una palla di fuoco che bruciava l’orizzonte e io mi trovavo a un paio di chilometri dal campo. Purtroppo non avevo portato con me alcuna fonte di luce e così, seppure era forte la tentazione di rimanermene nascosto sopra la mia torre ad osservare il passaggio notturno degli emioni, sono sceso e ho ripreso la strada per il campo, proprio come stavano facendo tutti quegli animali. Era già scuro quando alla mia sinistra ho notato un gruppo di quattro esemplari. Saranno stati venti metri. Mi sono arrestato e sono rimasto immobile. Loro mi hanno visto, ma non sembravano spaventati. Ho poggiato la sacca in terra e mi sono seduto ad osservare. Ho notato che questi animali, che già tollerano bene la vicinanza degli esseri umani, dopo un primo momento (30 minuti) di allerta e di curiosità, sono in grado di rilassarsi e proseguire sereni le loro attività, a costo che l’essere umano non manifesti più del dovuto interesse verso di loro. Esattamente come il leone che passa tranquillo accanto a un branco di zebre senza che queste si agitino minimamente, ho visto indiani passare vicinissimi a gruppi di khur sui sentieri che li riportano ogni giorno alle loro case. È questa una gran fortuna. L’osservazione di animali costantemente in allerta a causa della mia presenza, infatti, non costituirebbe uno studio etologico attendibile, in quanto ogni azione e ogni attività degli animali sarebbe viziata in partenza dal sottoscritto. Ma se sino ad ora sono riuscito a filmare scene di grooming, o rotolamenti in terra o addirittura tentativi di accoppiamento, forse posso ritenere che questi animali considerino noi umani esattamente, o quasi, come molti altri animali che occupino la loro stessa nicchia ecologica fatta di bush, deserto e acqua.

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LO SPIONE

Ho deciso che domani andrò a piedi verso il bush, prima che sorga il sole, e mi apposterò sotto un cespuglio più grande degli altri per tutto il giorno. Osserverò il branco durante tutta la giornata da che, mi dicono, molti dei khur scelgono di rimanere tra il deserto e il bush, dove c’è comunque un sufficiente approvvigionamento di acqua dolce. Non ho bisogno di chiedere modalità particolari o di farmi accompagnare da chicchessia, come pensavo di dover fare prima della ma partenza, visto che il branco che avevo già individuato dalla torre è lo stesso a cui sono stato condotto ieri in un safari in cui Vijay è riuscito ad impantanare la jeep in un tratto di deserto che sembrava secco e invece era molle. Per capire la dinamica dell’accaduto occorre che spieghi a grandi linee che cos’è il Little Rann of Kutch. L’area del Gujarat confina ad ovest con il mare. Quasi tutta la sua superficie è ricoperta da deserto. Il Little Rann, come suggerisce il nome, è il deserto più piccolo del Kutch. Poi c’è il Rann, che è molto più grande. Il Little Rann ha un’estensione di 50000 km quadrati in un’area di depressione, per cui in gran parte la sua superficie si trova sotto il livello delle acque oceaniche. Durante il periodo dei monsoni, da giugno a settembre, il little Rann of Kutch è quasi completamente allagato dalle acque oceaniche che si mescolano a quelle della pioggia. Quando il deserto sembra un immenso lago la vita non è facile per gli emioni e gli altri animali. In quel periodo è impossibile attraversare il deserto se non in barca, soprattutto nell’area dei pescatori dove, quando le acque si ritirano, è possibile incontrare piccole imbarcazioni di legno ormeggiate nel bel mezzo di una distesa di fango secco. È lì che con Vijay ci siamo impantanati con la jeep in un punto che pareva secco e arido e invece non si era ancora del tutto asciugato. Ritirandosi, nel terreno rimangono ingenti quantità di sale, soprattutto laddove l’acqua dell’oceano era in maggiore concentrazione rispetto a quella delle piogge. Lì con l’acqua alle caviglie la gente che si guadagna da vivere con l’estrazione del sale si da un gran daffare. In molti altri punti invece persistono questi piccoli laghi d’acqua dolce, acquitrini e lagune come quella accanto al mio campo, preziosi bacini idrici per la sopravvivenza di animali e persone. La maggior concentrazione di abitanti, comunque molto pochi, si trova ovviamente nei pressi di queste riserve d’acqua. Soprattutto al mattino si possono vedere persone sedute in gruppo sulle rive di una laguna o donne che vanno a lavare i vestiti. Io stesso, Passando con Vijay presso un piccolo ponte su un canale vicino al villaggio dei pescatori, ho involontariamente spiato dal finestrino della jeep in corsa tre giovani donne che con una caraffa si versavano dell’acqua tra i capelli corvini sciolti sulle spalle e sui piccoli seni nudi e scuri.

 

GUJARATI LANGUAGE

Mentre mangiavo per pranzo una pietanza piccante da far colare il naso Devjibhai si è avvicinato e si è seduto al mio tavolo. “Good?”, mi fa indicando il mio piatto. “Buhú saru” (molto buono) rispondo in Gujarati, infilandomi in bocca mezza chapati per cacciare il piccante. Ho deciso di imparare almeno una o due parole al giorno. Ma impararle e memorizzarle davvero, in modo da poterle usare. Durante questa sana pratica ho scoperto che il Gujarati, la lingua del Gujarat, è sensibilmente differente dall’hindi. È diversa al punto che spesso gente locale non riesce bene a comunicare con Indiani di altre regioni se non aiutandosi con l’inglese. Hanno sviluppato un hindlish davvero incomprensibile per comunicare fra loro, anche se poi, presi singolarmente, con me parlano un inglese molto migliore. Ad ogni modo pareva che Devjibhai avesse voglia di chiacchierare, così ho colto l’occasione per comunicargli che il giorno successivo sarei andato via molto presto a piedi nel deserto, prima dell’alba, avrei raggiunto il bush e sarei rimasto lì ad osservare gli emioni per tutto il giorno, fino al calar del sole. “No problem”, mi fa, “questa sera ti faccio preparare del cibo per la colazione e per il pranzo di domani. Del bollito di patate, un po’ di riso, qualche “chapati”. Ti faccio mettere anche due banane. Tu vai, le chiavi del cancello ce le hai. Stai quanto vuoi, no problem. Cammini e arrivi là”, continua abbracciando con un gesto del braccio tutta una parte indefinita di Bush e di deserto, “e stai quanto vuoi, ok?”. “Perfetto”, rispondo, “è proprio ciò che volevo chiedere”.