INSIEME. Abitare la Terra con gli altri animali -1

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 “LA COSCIENZA NEGLI ANIMALI”. Intervista ad Angelo Tartabini

 

Inauguriamo con questo primo articolo una nuova rubrica, con l’intento di indagare, con l’aiuto degli esperti, quale sia oggi la situazione di convivenza tra umani ed altri animali sul pianeta. Date per scontate (nell’ottimismo utopico, perché non lo sono affatto) le regole di base del rispetto per le altre creature viventi, ci sembra sia giunto il momento di fare un passo ulteriore, e cercare di capire meglio quali possano essere i criteri di analisi, i comportamenti da adottare, le scelte da operare per capire e rispettare il senso della convivenza sulla Terra di animali così diversi tra loro. Conosciamo gli altri animali? Come ci stiamo comportando con loro? Come si stanno comportando loro con noi? Cosa dobbiamo fare perché sia una coabitazione il più possibile giusta, rispettosa e anche proficua su questo Pianeta?

Con l’obbligata recente segregazione degli umani, abbiamo visto la natura riacquistare velocemente i propri spazi, e gli animali occupare luoghi resi meno inospitali dall’assenza dell’uomo. La Terra è per tutti, e se la superiorità dell’uomo in termini di diritto e di potere è presunta e illecita, è certo che il nostro sistema cerebrale ci permette una consapevolezza, una speculazione e quindi una possibilità di scelta inimmaginabile per altre specie animali.

Dovremmo usare dunque al meglio questa grande ricchezza e opportunità.

Come per tutto, la conoscenza è la base di ogni scelta di pensiero o di azione. Qui cercheremo di raccogliere i pensieri di studiosi, scienziati, filosofi e di persone abituate per professione o passione a ragionare sul rapporto con gli animali e a sperimentarlo quotidianamente.

Due necessarie segnalazioni: Asiniùs è per gli asini. Di loro sempre parleremo in questa rubrica, che necessariamente tratterà anche di tutti gli altri animali, dal gamberetto all’orso bruno. Infine: sarà solo per necessità, diciamo così, di metrica e scorrevolezza, se non scriveremo sempre “ gli ALTRI animali”, ma riteniamo di dover ricordare, e forse oggi più che mai sottolineare  – perché ce ne dimentichiamo spesso – che anche noi apparteniamo al Regno Animale.

 

Per iniziare questo viaggio ci è sembrato importante partire da un assunto di base, ovvero l’esistenza di una coscienza negli animali.

Abbiamo dunque intervistato il prof. Angelo Tartabini, facendo riferimento al suo ultimo libro, “La coscienza negli animali. Uomini, scimmie e altri animali a confronto”, recentemente edito da Mimesis (con la prefazione di Edoardo Boncinelli).

 

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Poiché nel titolo del tuo libro non c’è un punto interrogativo, la domanda è retorica, ma fondamentale: esiste dunque una coscienza negli animali?

La risposta è retorica! Certo che esiste, nel senso che se esiste nell’uomo – anche se ancora non c’è una definizione scientifica della coscienza –  poiché anche gli animali hanno un cervello deve esistere anche negli animali. A livelli diversi, ovviamente, perché non si può mettere a confronto la coscienza del criceto con quella dell’elefante o della scimmia. La coscienza è una qualità soggettiva, privata.

Nel descrivere le emozioni degli animali è inevitabile un antropocentrismo “linguistico” (possiamo usare solo i termini che conosciamo e che riportano alla nostra esperienza), ma cosa pensi della posizione che assume oggi l’uomo nei confronti degli altri animali?

Non è soltanto una questione linguistica. Il linguaggio è uno strumento della comunicazione che noi utilizziamo e sfruttiamo per passarci delle informazioni molto velocemente. È una questione legata alla nostra coscienza : la nostra posizione nel mondo è stata sempre di dominanza rispetto al mondo degli animali; questo ce lo siamo trascinati dietro da millenni e ancora persiste una concezione della classificazione, dell’animale meno intelligente, o addirittura senza intelligenza a differenza dell’uomo, senza cognizione eccetera eccetera. E’ un antropocentrismo che secondo me non finirà mai.

Che brutta notizia.

Brutta notizia, ma questa è la realtà. Dobbiamo ovviamente dare fondamento alla realtà dei fatti.

All’inizio del primo capitolo affronti  – come preliminare – l’annosa diatriba fisico/mentale: puoi sintetizzarci qui il tuo pensiero in proposito?

Questa è la dimostrazione del perché abbiamo sempre assunto rispetto al mondo degli animali una posizione di superiorità. Ci trasciniamo ancora il dualismo cartesiano e secondo me mai morirà. Ovviamente il dualismo ha subito da Cartesio in poi delle trasformazioni, concezioni nuove più filosofiche che scientifiche. Che mantengono però ancora vivo il concetto della separazione. Che per Cartesio ovviamente era tra corpo e anima, o pensiero. Un dualismo che era “di sostanza”, nel senso che la separazione tra mente e corpo sarebbe dovuta a una condizione sostanziale, che vede in anima e corpo due entità diverse. Poi questo concetto è diventato un dualismo “di proprietà”, perché la coscienza è una proprietà del nostro cervello. Però questi filosofi e purtroppo anche gli scienziati hanno mantenuto una concezione dualistica: esiste una proprietà del corpo e una proprietà della mente, o della coscienza. E così, in sostanza, in tre secoli non è cambiato niente. Poi sono venuti altri personaggi molto interessanti, per esempio John Searle, un filosofo naturalista americano, che toglie di torno tutte le concezioni dualistiche. Una posizione  che io ho sempre condiviso: è inutile che ci scervelliamo su che cosa sia la coscienza quando non conosciamo come funziona nella sua complessità, nella sua totalità il cervello dell’uomo e in sostanza anche quello degli animali.

Certamente nel mondo animale esiste la violenza e gesti che nel contesto degli esseri umani sarebbero catalogati come criminali.

Anche questa è una questione linguistica.

Intendo dire che, ad esempio, l’abbandono di un figlio per noi è crimine. Ma ben sappiamo che questo avviene in natura senza che debba essere considerato come una colpa da punire.

Sì, e dobbiamo fare molta attenzione. Se una mamma di scimmia abbandona il proprio piccolo, bisogna conoscere le ragioni di questo abbandono. E questo potrebbe valere anche per l’uomo. Dal momento che loro vivono in una società altamente gerarchizzata, spesso ad harem con delle regole molto ben definite, al contrario delle regole umane, per individuare le ragioni per le quali una mamma abbandona il proprio figlio c’è una spiegazione naturalistica. Una madre di scimmia abbandona il proprio figlio handicappato perché questo significherebbe per lei spendere un’infinità di energie che potrebbero addirittura portarla alla morte. Ci sono sempre delle valutazioni costo/beneficio che devono essere adeguatamente valutate. Una mamma, in parole povere, preferisce abbandonare il proprio figlio handicappato per entrare subito in estro e avere la possibilità di far nascere un altro figlio, magari questa volta sano. Questo è un beneficio per lei e per la progenie. In un certo senso questa regola è valsa anche per l’uomo. Nel ‘600 i figli che nascevano handicappati venivano soppressi a migliaia. Non abbandonati, addirittura soppressi alla nascita. Questo non era un atto di “violenza”, serviva per il mantenimento della famiglia esistente e della prole a venire. Il concetto di violenza è molto labile.

Hai detto inizialmente che, capito come funziona nel mondo degli animali, dovremmo utilizzare queste nozioni per capire le cause di certi nostri comportamenti.

Noi abbiamo una morale umana che ci induce a prenderci cura dei piccoli che hanno delle difficoltà. Ma è perché abbiamo gli strumenti per farlo: un’assistenza sociale, strumenti adeguati per il mantenimento di tutti i figli, sani o meno sani. Questo è rientrato nella morale dell’uomo, ecco perché oggi è immorale il comportamento di una madre che rifiuta il figlio handicappato.

Gli altri animali conoscono, come è per noi, la cattiveria?

Esistono comportamenti per i quali degli individui prendono il sopravvento su altri individui per ragioni precise, sempre legate alla questione delle società gerarchizzate, e sentono l’esigenza di manifestare le loro doti e le loro qualità affinché possano diventare dei soggetti dominanti. Questo è naturale e spontaneo, e lo facciamo anche noi essere umani: noi manifestiamo la nostra dominanza o sottomissione utilizzando tutti gli strumenti possibili che abbiamo a disposizione. Se io sono ricco e potente sono anche un soggetto dominante e posso imporre le mie regole e addirittura la mia morale, e questo vale anche per gli animali.

Nel mondo umano sembra a volte di leggere una cattiveria gratuita.

La cattiveria fine a se stessa come struttura psicologica esiste solo nell’uomo. Negli animali sani, nella normalità, non c’è. Tutto ha una finalità.

E ora veniamo agli animali ai quali è dedicata questa rivista. Ne “La vita emozionale degli animali” di Mark Bekoff  il capitolo sull’etologia cognitiva apre con questa citazione da “Donkey” di Michael Tobias e Jane Morrison: “Noi crediamo che l’Equus asinus preferisca più di ogni altra cosa l’essere lasciato solo così che possa pascolare come preferisce, meravigliarsi di quanto lo circonda, meditare su altre forme di vita, bere acqua in abbondanza, divertirsi, cantare, dormire, fare l’amore, crescere i suoi piccoli, fare feste e discutere di grandi questioni di vita”. Dunque ti chiedo: dobbiamo leggere questo passo come l’invito a interagire il meno possibile con gli altri animali? Ritenere un’imposizione la nostra presenza tra loro, il nostro tentativo e desiderio di interazione?

Questo vuol dire che gli animali, pur a livelli diversi, hanno coscienza di quello che fanno e di quello che vorrebbero fare, hanno il desiderio della libertà, soprattutto se sono animali selvatici  che non hanno mai avuto un rapporto con l’essere umano. Le cose potrebbero cambiare per gli animali domestici, come è per l’asino.

Quello che tu dici, interagire il meno possibile con loro, ritenere un’imposizione la nostra presenza, sarebbe una soluzione ideale. Ma rimane ideale perché l’asino è un animale domestico e il suo comportamento va letto in funzione del rapporto che ha con l’uomo da millenni. La sua coscienza deve essere vista in relazione alla coscienza dell’uomo che lo ha sottoposto alle sue regole.

Quindi, venendo al concreto, alle nostre giornate con gli asini, quello che possiamo fare è capire e rispettare anche i loro desideri.

Bisogna trasmettere loro il senso della libertà, il che è molto difficile. Con le dovute precauzioni, perché oggi che sono animali domestici, se lasciati liberi, morirebbero. Non avrebbero più il sostegno materiale e difensivo dell’uomo. O diventerebbero selvatici di nuovo. Ma questo è un processo molto lungo.

Per quanto lungo, in un mondo ideale, in una prossima vita, sarebbe bello che accadesse. Lo dico pur essendo io proprietaria di un asino, di un cane, di un gatto.

Ah, hai detto la parola! Tu sei la padrona!

Mi fai dire questa parolaccia? Vabbè. Allora dico che nella prossima vita non vorrei essere padrona di nessun animale, neanche amandolo e curandolo nel migliore dei modi.

Ci sarà sempre qualcuno che prenderà il tuo posto.

Per chiudere, su questa citazione su asini che fanno feste, fanno l’amore, cantano  nella loro solitudine, nel loro branco, noi che amiamo entrare nei loro recinti dobbiamo saper rispettare anche il loro bisogno di stare a fare quel che gli pare?

Dobbiamo rispettare la loro animalità.

Ancora Bekoff, ancora una citazione dallo stesso testo ”Donkey”: “Noi crediamo che la maggior parte degli asini, ne avessero la possibilità, modellerebbero un mondo privo di violenza. Come San Francesco d’Assisi, creerebbero daccapo il mondo naturale facendone il proverbiale giardino dell’Eden, dove il leone e l’agnello giaceranno l’uno di fianco all’altro”.  Credo che per tutti i lettori di Asiniùs questa sia una frase da standing ovation, pura poesia per le nostre orecchie, ma tu, da studioso della coscienza e della morale animale, cosa ne pensi?

Non capiterà mai. Il leone non conviverà mai con l’agnello a meno che non ci sia una trasformazione totalizzante del mondo vivente. Il leone è un animale selvatico e tale rimarrà sempre. L’agnello è domestico. Dovrebbe inselvatichirsi l’agnello ma anche in questo caso non conviverà mai con il leone, carnivoro per eccellenza.

E per rispondere alla prima parte della citazione: gli animali modellerebbero un mondo privo della NOSTRA violenza. L’asino in ogni caso non è un animale violento, si è lasciato addomesticare abbastanza facilmente. Gli uomini ci hanno provato con tutti gli animali, qualcuno in base alle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche si è lasciato addomesticare, altri non ne hanno voluto sapere.

Per restare nell’ambito degli equidi, così è stato per la zebra.

Esatto. La zebra non è un animale domestico. È molto simile all’asino, con molte affinità dal punto di vista morfologico ma poche da quello psicologico. E ci sono anche ragioni legate all’ambiente. L’asino è stato addomesticato anche perché ad un certo punto ha invaso il mondo, ed è entrato a più stretto contatto con l’uomo. La zebra no, è rimasta nel suo contesto naturale dove la popolazione umana era molto scarsa, debole e non poteva “perdere tempo” ed energia ad addomesticare un animale che non ne voleva sapere niente.

Nel tuo libro parli del senso della morte, per provare il quale “bisogna vivere stati di coscienza molto elevati”. Tutti noi conosciamo, per rimanere in tema di equidi, ma è solo un esempio, gli strazianti ragli e la veglia funebre degli asini di fronte al compagno morto: cosa possiamo dire di questa sensibilità così sviluppata?

L’asino ha un livello di coscienza molto sofisticato, alti livelli cognitivi e quindi una grande sensibilità. Se a una formica muore una compagna non succede niente.

Gli animali talvolta si sforzano di rianimare il compagno a terra.

Sì, ho assistito più di una volta a queste scene. Una di queste riguarda i Macachi Rhesus  in una città dell’ India, dove le scimmie stanno praticamente dappertutto. Si può trovare il video su Internet. Un soggetto, in una stazione ferroviaria, passando sui fili dell’alta tensione rimane fulminato e cade a terra svenuto. Un altro individuo, probabilmente imparentato, si avvicina e cerca di rianimare il compagno. Prova a lungo ma non ci riesce, fino a quando vedendo una pozza d’acqua ha l’idea: preso di forza il compagno lo trasferisce nell’acqua fredda, riuscendo finalmente a farlo rinvenire. Di fronte a una scena del genere, tu non puoi dire che si tratti dell’istinto, come comunemente si dice, né tantomeno di un caso. Quindi se succedono queste cose una domanda ce la dobbiamo porre.

Tornando a scene degli asini, conosciamo situazioni in cui, davanti al cadavere, dopo aver ragliato, e anche aver tentato di far rivivere – per forza di cose inutilmente – il compagno morto muovendolo con il muso, esiste un periodo che sembra una veglia , qualcosa di rituale.

Quando parlo del senso di morte degli animali mi riferisco soprattutto al concetto di attaccamento e quindi all’affettività. Questi  asini ovviamente erano legati affettivamente tra di loro. Quindi l’attaccamento è molto forte, molto profondo, ed è come quando un figlio perde la madre o viceversa. Tutto è legato alla forza che unisce psicologicamente due individui, imparentati o anche no. È una carica affettiva che viene a mancare improvvisamente, e questo traumatizza l’animale.

Lo studio del cervello umano è lungi dall’essere concluso: cosa si sa delle strutture cerebrali degli altri animali? A che punto sono gli studi, ad esempio nelle scimmie, che tu conosci così bene e che studi da sempre?

Noi conosciamo l’anatomia del cervello, ma non siamo arrivati ancora a conoscere come funziona. Come guardiamo una macchina, e vediamo che è fatta di ruote, motore, forse di diecimila pezzi, ma quello che in effetti poi conosciamo è la cooperazione di tutti questi elementi , che costituiscono una macchina in grado ad esempio di portarti da Milano a Roma. Noi del cervello conosciamo tutti i pezzi ma non come funzionano nella loro complessità e totalità tutte le connessioni corticali. Io sono molto critico riguardo a tutti i soldi che si spendono in intelligenza artificiale, perché molti pensano che si possa un giorno arrivare a costruire una macchina che funzioni come il nostro cervello. Questo non potrà mai avvenire e c’è una dimostrazione scientifica:  gli stati nervosi  sono trilioni nel nostro cervello e metterli insieme è materialmente impossibile. Non esiste nessun calcolatore che possa sostituire nella totalità il cervello dell’uomo. Lo si può fare solo parzialmente. Questo vale anche per lo studio del cervello animale.

Esistono animali che non provano dolore, fisico o psicologico?

Basta avere un neurone in testa per provare dolore. Solo una macchina non prova dolore.

Quindi anche una vongola soffre?

Soffrono tutti gli animali, con livello di complessità diversa, in funzione delle cellule nervose che costituiscono il loro cervello.

Cosa ci distingue dagli altri animali? C’è qualcosa che abbiamo solo noi umani?

Quello che stiamo sfruttando in questo momento: il linguaggio articolato, fatto di suoni o fonemi che costituiscono le parole a cui noi diamo un significato, soprattutto se parliamo la stessa lingua. Solo questo ci distingue dagli animali. Gli animali non parlano.

Da studioso e scienziato che posizione assumi riguardo l’utilizzo di animali nella ricerca scientifica, negli zoo (con o senza gabbie), nei circhi e per l’alimentazione umana?

Io sono stato sempre critico verso la costrizione degli animali negli zoo e anche nei parchi.  Quando li studiavo, e portavo qualcuno con me ad esempio nella savana, e spiegavo Guarda qui, c’è un gruppo di babbuini, stanno facendo questo, eccetera… io non intervenivo mai, assolutamente mai nell’attività di questi animali. Tutti gli altri (persone non del mestiere) cercavano di avvicinarsi, addirittura di toccarli. Questo non si deve fare, non si deve mai intervenire direttamente nella loro vita sociale. Gli etologi seri si comportano sempre così. Non si deve intervenire neppure nei casi in cui venga spontaneo, ad esempio alla vista di un animale adulto che stia maltrattando il suo piccolo. Il piccolo potrebbe interpretare l’intervento come il gesto di un cospecifico, come una possibilità di difesa da richiedere quando ci sono le circostanze, quindi cambia il valore dell’individuo nel contesto sociale. Poi ci sono questioni legate alla salute. Ci sono malattie che gli animali possono trasmettere a noi, o noi a loro. O ancora, come dico spesso, malattie che ci possono “ritornare indietro”. Se posso dire una cosa sul Coronavirus… questa volta le scimmie non  sono state coinvolte, grazie al cielo. Però sono stati coinvolti altri animali e allora gli eminenti scienziati di tutto il mondo hanno detto che il virus può essere stato trasmesso dal pipistrello, dal pangolino, e tutte queste stupidaggini qua, però questi scienziati non si sono mai chiesti, perché a loro non conviene chiederselo, se il virus lo abbiamo passato noi agli animali, e poi loro ce lo abbiano riportato indietro, magari modificato, e quindi letale per l’uomo. Queste cose non si dicono.

Ti ricordi la questione dell’AIDS? Sai quanti scimpanzé sono stati… loro dicono sacrificati, io dico ammazzati, per vedere l’effetto che faceva? La scimmia non moriva, se entrata in contatto con l’HIV, ma rimaneva solo parzialmente debilitata. Ecco, per fare questa bella scoperta hanno trucidato più di duemila scimpanzé.

E veniamo dunque alla ricerca scientifica. Abbiamo detto che tutti gli animali soffrono, ma sembra sia utile usarli, ad esempio per trovare rimedi contro le nostre malattie.

Ti ricordi la scoperta della penicillina di Fleming, avvenuta nel 1928 e poi applicata durante la seconda Guerra Mondiale? Ebbene, questa scoperta, una delle più grandi al mondo, che ha salvato milioni e milioni di persone, non è stata fatta sugli animali. È stata fatta in vitro. Ma il punto qual è? È che Fleming, essendo oltre che un grande scienziato una grande personalità, ha detto io preferisco chiedere fondi a destra e a sinistra, per fare la ricerca in vitro e non ammazzare nessun animale. Ora si preferisce sfruttare alcuni animali di laboratorio, soprattutto ratti, conigli, e anche scimmie purtroppo, perché i dati sono immediati, si spende poco denaro (perché la ricerca in vitro costa molto ed è lenta, anche se i benefici possono essere grandi) e scommetto che con questa storia del Coronavirus nei laboratori chissà quanti animali saranno sacrificati. Inutilmente, secondo me, perché non regge il confronto con gli umani. Lo scimpanzé, che è il più simile all’uomo, costa troppo? Allora usiamo i criceti. Anche il criceto è caro? Allora usiamo i topi, che costano poco e a ogni nidiata fanno venti figli, che sono tra l’altro tutti gemelli, terreno fertile per la ricerca.

Inutile a questo punto che ti chieda cosa pensi dei circhi…

Bah, si potrebbe farne a meno. E si sta cominciando a farne a meno, perché ci sono delle convenzioni internazionali che iniziano ad essere rispettate in questi ultimi decenni, dopo gli anni ’70. In queste convenzioni, ad esempio quella di Washington, si vieta l’utilizzo di animali per la ricerca scientifica e per l’uso ludico.  In alcuni paesi queste regole sono rispettate mentre altri se ne fregano.

E sull’utilizzo per l’alimentazione umana?

Questo è un problema annoso. Si dovrebbe fare a meno della carne animale per un’infinità di ragioni, ovviamente inclusa quella dello sfruttamento. Perché è dannosa per l’uomo, e particolarmente in questi ultimi secoli, in cui ne abbiamo fatto uso esagerato. Siamo alle solite questioni: si dice che per produrre un chilo di carne suina ci vogliono 17mila litri d’acqua (e pensa poi al foraggio e a tutto il resto) però questi numeri non impressionano, non interessano nessuno. Perché c’è una forte speculazione dietro, ovviamente.

Per chi sceglie di essere onnivoro, fa la differenza nutrirsi di animali che vengono da allevamenti intensivi, che come ormai tutti sappiamo sono lager, o per lo meno cercare carni che provengano da pascolo?

Gli animali che stanno negli allevamenti intensivi soffrono, vengono alimentati per produrre più carne o più uova, gli altri fino alla morte almeno sono indisturbati. Ma nella sostanza non c’è differenza: ti alimenti di carne animale.

Tu sei vegetariano?

Io non sono vegetariano, anche se mangio pochissima carne. La considero una mia debolezza. La questione principale riguarda quello che subisce l’animale fino alla morte, questo è vero, ma sono anche consapevole del fatto che non si possa cambiare un sistema economico dall’oggi al domani.  Purtroppo dobbiamo fare i conti con questo. Pensa all’Argentina… crollerebbe economicamente in un giorno. I discorsi etici devono essere sempre affrontati insieme a quelli economici, dal momento che viviamo in un sistema capitalistico e alle persone che comandano e decidono non importa assolutamente niente, anzi, se potessero farebbero ancora di peggio (vedi Brasile).

Poi ogni tanto c’è qualche personaggio molto interessante… ne ho conosciuto uno, in centro Italia, che aveva un allevamento intensivo e un giorno ha costruito una recinzione mastodontica e li ha lasciati tutti in libertà. Gli ho detto Ma tu adesso hai perso un valore economico immenso! E lui: Ma chi se ne frega. Almeno non soffrono. Una cosa molto positiva, naturalmente. Purtroppo che non incide sulla mentalità complessiva del sistema e dell’umanità.

Il tuo libro è ricco di citazioni da illustri filosofi e scienziati: quali consideri i tuoi riferimenti e quali testi sull’argomento ritieni “sacri”?

Sì, ci sono autori che considero importanti. Avrai notato che faccio molto spesso riferimento a John Searle,  che ha scritto diversi libri, molti tradotti in italiano. Quello che mi ha fatto capire un’infinità di cose, soprattutto come superamento della concezione dualistica (e per questo è un emarginato!) è “Il mistero della coscienza”, un titolo provocatorio perché per Searle la coscienza non è mistero: il mistero è la Santissima Trinità, non la coscienza! È pubblicato in Italia da Cortina.

Infine, vorrei chiederti un aneddoto, un ricordo personale a te caro di un momento in cui hai provato stupore, e magari commozione, per un comportamento animale.

C’è un fatto che mi ha provocato stupore, più che altro. Un fatto di cui ancora porto fisicamente il segno, dopo 45 anni circa. Mi riferisco ad un’esperienza in Giappone, stavo studiando un gruppo di Macachi a Minō, una località che si trova vicino Ōsaka. Ero entrato in sintonia con questo gruppo dove, com’è per quella specie, un adulto dominante, forte, controlla il suo harem di femmine. Mi vedevano tutti i giorni, ero solo, in una località piuttosto impervia. Loro notavano la mia presenza, nonostante facessi l’indifferente. C’era una femminuccia di 3 anni, che quindi credo sia andata in estro per la prima volta quando è successo questo caso, che mi gironzolava intorno e a un certo momento mi si avvicina, io continuo a fare l’indifferente, e mi dà un morso tremendo al braccio. Io al momento ho pensato Ma questa è scema, perché fa una cosa del genere? Poi ho cercato di capire, e secondo me lei aveva male interpretato il mio comportamento, le mie attenzioni che erano rivolte – secondo questa scimmietta – ad altre femminucce del gruppo… insomma, per farla breve, mi ha dato questo morso per gelosia. Conoscendo tutta la dinamica di gruppo non sapevo trovare altra spiegazione se non che lei volesse che io le dedicassi più attenzione, capendo che ero maschio. Potrebbe essere una mia fantasia, ma a volte gli animali fanno queste cose.

Perché una coscienza c’è, eccome. Qualunque cosa essa sia, ma qui entreremmo in una palude…

Vorrei aggiungere una cosa: questo libro avrebbe potuto intitolarsi “La coscienza DEGLI animali”. Non a caso ho preferito “NEGLI”: la prima scelta avrebbe lasciato spazio a un dubbio, alla possibilità di trovare limiti all’idea della presenza, a interpretazioni. In quei cervelli così diversi tra loro, invece, la coscienza certamente c’è.

 

Ah, la bellezza del linguaggio. Davvero a loro manca solo quello.  E cosa ci direbbero, potendo usare le nostre parole? Beh, in coscienza…

 

Angelo Tartabini, laureato in Scienze Naturali e in Scienze Biologiche, già docente di Psicologia Generale presso l’Università di Parma, sin dagli anni ’70 si è dedicato allo studio del comportamento animale – in particolare delle scimmie – presso accademie e centri di ricerca in molte parti del mondo. Ha all’attivo più di duecento pubblicazioni scientifiche, 15 volumi, contributi a congressi, conferenze e Festival delle Scienze.